venerdì 15 agosto 2014

Il Mistero della Statuetta Indiana di Cristiano Lys

Il Mistero della Statuetta Indiana di Cristiano Lys

Descrizione prodotto
Sinossi
Un romanzo alla Charles Dickens con in più un pizzico di mistero alla Sherlock Holmes. In una Londra di fine ottocento, nei bassifondi di Whitechapel (famoso per Jack Lo Squartatore) si dipana una storia d’amore, di miseria e nobiltà e di un mistero che avvolge una statuetta indiana.









Estratto da Il Mistero della Statuetta Indiana


Il dottore stava seduto davanti a un fuoco a metà spento, su un vecchio e massiccio seggiolone. Accanto a lui, su un tavolo, stava una lampada coperta da un paralume — l'unica illuminazione della stanza. Tratto tratto un'ondata di fumo usciva, dalla sua grossa pipa, mentre egli stava tutto assorto nella lettura di un'opera di recente pubblicazione sulle malattie mentali.
Gli si scorgeva nel viso e nello sguardo un profondo interesse. Di tanto, in tanto, esclamava forte:
«No, no, non vi è nulla che lo provi».
«E' una illusione». 
«Sì, è giusto, lo sperimentai, anche io».
Improvvisamente guardò alle pesanti tende che stavano davanti alla finestra. Le fissò un momento come se si aspettasse di vedere qualcuno. Un brivido correva lungo la stoffa, come se venisse scossa da una mano invisibile.
La finestra non chiude bene, — disse il dottore a mezza voce. — Domani la farò aggiustare.
Poi tornò al suo lavoro. Strano, non gli riusciva più di concentrarsi come prima. Cambiò posizione alla lampada perchè gettava un'ombra. Non poteva reggere in mano il libro, perchè troppo pesante e se l'appoggiò alle ginocchia, curvandosi per poter leggere, ma la testa faceva riparo alla luce, onde spostò un'altra volta la lampada per sfuggire l'ombra.
Intanto il cuscino del seggiolone era caduto in terra ed egli non trovava più una buona posizione. Chiuse con un atto di impazienza il libro e fissò di nuovo la finestra. Quale fu la sua sorpresa! Dalle tende usciva fuori una grossa testa, dalla carnagione nerissima, con due occhi che lo guardavano fisso fìsso. La bocca semi aperta lasciava scorgere una fila di denti bianchissimi. L'espressione del viso era stupida.
Che fate qui? — chiese il dottore, dopo un momento, riavutosi dalla sorpresa, e dopo essersi munito di un lungo coltello che pendeva accanto al fuoco. Intanto la tendina si era alzata, ed un uomo entrava nella stanza.
Aveva in capo un turbante, i suoi piedi, apparentemente senza calze, portavano delle vecchie scarpe troppo larghe; un palo di calzoni corti, logori e tutti toppe, una specie di camiciotto bianco come sogliono portare i pittori, una camicia di flanella abbottonata stretta intorno al collo, senza cravatta, formavano il suo abbigliamento. Egli era molto alto: aveva le braccia e le gambe lunghissime; le prime gli giungevano fino alle ginocchia. La testa era straordinariamente grossa.
Come avete fatto a venir qui? — chiese il dottore alzandosi dal seggiolone, pronto ad un attacco.
Nulla pareva più lontano dal suo pensiero quanto un attacco. Gli fece un profondo inchino.
Entrai qui dalla porta, mentre il Sahib era fuori, — disse in un buonissimo inglese.
Per quale motivo?
L'uomo segnò col dito le tendine, dalle cui pieghe era uscito fuori.
Per nascondermi...
E perchè volevate nascondervi là?
Perchè il Sahib ha un brutto coltello? Io non sono un nemico. Sono un amico.
Perchè volevate nascondervi là dentro? — gli ripetè un'altra volta il dottore additandogli le tende senza però mai lasciare il coltello.
Perchè avevo sentito dire che il dottor Kingsford è un uomo buono e generoso, benedetto dai poveri come un inviato di Brahma: che consiglia e conforta gli infelici aiuta gli stranieri, guarisce gli ammalati. Non ho mai incontrato un uomo che assomigli a lui, in questo strano paese. E volli venire a vedere questo dottore per consultarlo.
Siete ammalato?
No, sono uno straniero e vorrei domandare aiuto e consiglio al buon dottore.
Egli aveva un'aria tanto inoffensiva, che il dottore posò il coltello.
Ora, amico mio, ditemi la ragione per cui vi nascondeste colà invece di entrare per la porta.
L'individuo alzò una delle sue lunghe braccia, piegò il capo da un lato, come se la domanda non richiedesse una risposta.
Se fossi entrato dalla porta di casa, mi avrebbero detto: Andatevene, il buon dottore ha da fare. Usai dunque questo strattagemma perchè altrimenti non sarei riuscito a vedere il buon dottore.
Kingsford sorrideva.
Sapete che vi sono di quelli che sarebbero andati su tutte le furie dinanzi a un fatto simile? — disse.
Lo so, ma il dottore no, certo. Ho sentito parlare del dottore...
Bene, ora che imi avete visto, ditemi quello che volete — disse Kingsford, ansioso di toglierselo dai piedi.
Un consiglio! — fu la strana risposta.
Questo è presto dato: non andate in giro nelle camere altrui, come avete fatto con me.
Via, non siate in collera con me.
La sua voce era tanto supplichevole, mentre stendeva le sue lunghe braccia in atto di preghiera verso il dottore.
Sono straniero in un paese che non conosco. Qui mi trovo così diverso dagli altri! Quando vado in giro a cercare qualcosa per mangiare, mi ridono dietro perchè non rassomiglio a loro! Quando cammino i monelli mi corrono dietro schernendomi. Quando domando: Datemi del lavoro, sono un buon lavoratore e vi domando poco compenso, il padrone mi scaccia e gli altri mi ingiuriano.
Il dottore non rispondeva.
Eppure posso giurare che sono un inglese come gli altri, tranne che nel viso. Il viso è hindù.
Il dottore rise forte, per l'idea che si faceva l’hindù dell'inglese.
Che posso io fare, per voi? — gli chiese.
Il buon dottore mi aiuterà. Egli è solo. Quando il povero viene a trovarlo va egli stesso ad aprire, e gli dice: Entrate. Il dottore è solo, in mezzo a tutte queste cose — e si guardava attorno, — e tutte queste cose hanno bisogno di cura. Il dottore sporca ed ha bisogno di qualcuno che tenga pulito. Io voglio vivere col buon dottore. Ram Khan è un buon servitore. Egli avrà cura di tutto e del dottore.
Tacque guardando ansiosamente Kingsford, aspettando la sua risposta.
Amico mio, io non ho punto bisogno di un servitore.
Sì, dottore, voi ne avete bisogno, molto bisogno. Guardate qui che polvere!
E passò la mano su uno scaffale vicino al fuoco, ridendo del segno lasciato.
Ma io pure sono povero.
Così mi dissero. Ma il buon dottore è ricco qui, — e si pose la mano sulla testa. — Egli sa tutto. Tutti i mali scompaiono appena li vede! Egli è ricco qui, — e si pose la mano sul cuore. — Ram Khan lo sa. I bambini sorridono quando lo incontrano per via e gli uomini s'inchinano profondamente. Ram Khan sarà ricco pure lui, perchè il buon dottore è suo amico.
Kingsford non sapeva cosa dire.
Dove dormite stanotte?
Qui, — rispose l'hindù prontamente.
Al dottore non sorrideva punto quell'idea.
No, non stanotte. Devo prima pensarci. Tornate domani.
Domani?
.
Grazie mille, dottore, grazie mille.
E un'altra volta non nascondetevi più.
No, feci questo prima che il buon dottore fosse mio amico.
Kingsford tirò indietro la pesante tenda che stava davanti alla porta.
Buona notte.
Domani.
Sì, domani!
Il dottore rimase sull'uscio finchè l’hindù ebbe disceso l'angusta scaletta della vecchia casa e fu sulla via, poi chiuse la porta e tirò il chiavistello.
Ecco un'avventura — mormorò. — Una strana avventura. E così, domani, Ram Khan sarà il mio servitore, eh!
Attizzò il fuoco, alzò la luce alla lampada, lanciò il giornale attraverso la stanza su una statuetta che rappresentava un bambinetto seduto su un trono, posata su un piedestallo nell'angolo opposto, urtando il piccolo berrettino di seta nera che il dottore, alle volte, metteva nel fare certi esperimenti e che egli aveva posato di traverso sulla testa di quell'immagine, dandole un'espressione di grande comicità malinconica.
Il dottore guardò l'orologio.
Le dieci... Bisogna che io vada dalla signora Berry. Poveretta! Essa non vivrà molto a lungo, ho una gran paura!
Si pose il cappello in testa, un pesante pastrano sulle spalle, abbassò la luce della lampada e dopo aver puntato un cartellino sulla porta esterna di casa col quale avvertiva che fra una mezz'oretta sarebbe stato di ritorno, e che qualsiasi avviso venisse messo nella cassetta delle lettere, scese le scale e si trovò in mezzo alla nebbia.
Maurizio Kingsford, dottore in medicina, in Londra, aveva dovuto sempre lottare nella vita. Glielo si vedeva nella persona, che dimostrava più anni di quanti ne avesse, poiché in realtà non aveva più di trentacinque anni, nella sua conversazione, che aveva un non so che di amaro e di cinico, e nel suo carattere corazzato a tutte le vicissitudini e, per così dire, d'un pezzo solo.
Suo padre, pastore anglicano, privo di mezzi di fortuna, con uno stipendio modicissimo, pure, dovendo tenere un certo decoro, aveva sudato sangue per dargli un'educazione conveniente, ed il figlio, da parte sua, aveva lavorato e studiato come pochi giovani fanno per alleggerire al padre pene e fatiche.
Quando il pastore morì improvvisamente, lasciandolo solo al mondo, senza una relazione, senza un amico e senza un quattrino, egli aveva venti anni. Nessuno s'immagina quali sacrifici fece per poter continuare i suoi studi.
Abitava una soffitta: i suoi abiti erano decenti a forza di cure e molte volte rinunziava al pranzo per potersi comperare un libro. In collegio era considerato come un originale. Con tutto ciò non lo detestavano, ma evitavano di stargli insieme, come uno di cui non si capisce il carattere.
Maurizio Kingsford non domandava di meglio: egli non aveva bisogno di compagnia, bastava a sè stesso. Fortunatamente egli era dotato di un temperamento di ferro, e la cattiva nutrizione e l'eccessivo lavoro non indebolirono la sua salute, per cui con la sua volontà, a tempo debito, prese la laurea.
Ma se le ansie, le privazioni, le cure d'ogni specie non ebbero influenza sulla sua salute, lo ebbero però sul suo carattere. Egli pensava e sentiva come un invecchiato molto prima del tempo.
Della vita non conosceva che il lato brutto, ed ignorava che ve ne esistesse un altro. Il destino gli era stato così avverso! Cosa tristissima e pericolosissima per la gioventù, quando le più lievi cose lasciano una impressione, quando ogni seme che cade nella nostra mente è pronto a prendere radice.
Ed i semi così gettati produssero una strana messe nel carattere di Maurizio Kingsford. Egli era naturalmente un pensatore. Gli studi gli avevano dato la facoltà di pensare molto e bene, se non sempre saggiamente.
Era un uomo probo, onesto, sprezzatore delle azioni meschine, aveva un carattere calmo e malinconico, affettuoso e saggio, consigliere verso colui che si rivolgesse a lui. Insomma, era un uomo generoso.
Ma le cattive erbe erano pure cresciute! Era invidioso, aspro, cinico, diffidente, non credeva nella scienza se non in quello da lui sperimentato, ed era poco religioso. Ma egli non faceva pompa delle sue idee, le teneva chiuse in sè e, forse, desiderava di credere più di quanto glielo concedesse il suo carattere, ed invidiava quelli che avevano più fede di lui.
Insomma, per quanto le cose ora gli andassero bene, e riuscisse in ogni cosa, pure la sua non era una vita che lo contentasse. Egli avrebbe avuto bisogno di un raggio di sole, di un amico, di qualcuno da poter amare e incoraggiare.
All'epoca in cui comincia questo racconto, il dottore aveva trentacinque anni, una struttura solida, non molto alto, ma snello, e i suoi capelli neri cominciavano a brizzolare sulle tempia. Era completamente sbarbato, aveva degli occhi neri e vivi. Uno straniero, a prima vista, avrebbe sentito subito simpatia e confidenza per lui, ma l'uomo o la donna che lo avessero conosciuto meglio, lo avrebbero diffìcilmente amato.
Gli anni gli avevano addolcito il carattere e ne avevano messo in luce i lati buoni, ma il raggio di sole non era giunto ancora. La gemma esisteva, ma aveva bisogno di luce e di colore per svilupparsi.
Da cinque anni egli aveva incominciato a esercitare nell'East End di Londra. Il lavorare tra i poveri gli piaceva. Sentiva per loro della simpatia ed essi gliela ricambiavano. Egli aveva vissuto quei cinque anni in un appartamentino sopra la bottega di un confettiere in West Street Witechapel.
Il suo nome era scritto su una targhetta di ottone, fissata sulla porta di casa che rimaneva sempre aperta perchè il dottore aveva una numerosa clientela. La casa dove abitava era un vecchio caseggiato mezzo in rovina, in una delle vie più povere del quartiere, ma appena entrati nel suo appartamento, si rimaneva sorpresi.
Aveva tre camere che mettevano in una piccola anticamera la quale aveva un uscio sulla scala. Una di queste era la sala dei consulti, la sua bottega, come usava chiamarla; una camera piena di bottiglie, di tubi di medicinali, con degli odori strani, perchè il dottore era uno sperimentatore.
L'altra era la sua camera da letto, piccola, ammobiliata del puro necessario. La terza era quella che abitava, ed era appunto quella che sorprendeva. Era larga e spaziosa. Alle finestre e alla porta pendevano pesanti tende, un tappeto soffice copriva il pavimento, un pesante camino in noce e dei ricchi mobili intarsiati ornavano la stanza.
Ai muri pendevano delle vecchie stampe di prezzo, unite a strani ma simpatici paesaggi: vi era uno scheletro con una corona avvolto in una ricca stoffa, e altri attorno a lui, rivoltanti nella loro orribile realtà.
Armi d'ogni nazione pendevano in artistici gruppi. Della porcellana cinese stava esposta in due armadi a vetro. Nella parete opposta alla finestra stavano dei libri, la maggior parte opere di medicina e opere scientifiche.
Uno scrittoio coperto più di libri che di carte stava vicino alla finestra. L'arte e la scienza, la bellezza e la ributtante realtà, erano stranamente riunite in quella stanza. In un angolo, come già dicemmo, su un piedistallo di marmo stava una statua.
Era una figura in legno lavorato con molta arte, seduta, con le mani sulle ginocchia, la testa china e gli occhi che parevano chiusi. Essa attirava l'attenzione di chiunque entrasse nella stanza, come di una cosa che non fosse al suo posto, come se essa dovesse arrossire di non trovarsi in un tempio.
Tuttavia essa aveva una espressióne sinistra. Si sarebbe detto che essa dovesse alzare improvvisamente gli occhi e fissarvi in viso. Questa stanza era il paradiso di Maurizio Kingsford.
Povero come era, egli aveva fatto di tutto per dare una impronta di ricchezza a quel luogo a lui caro, privandosi spesse volte delle cose più necessarie alla vita, per raggiungere questa sua idea.
Giunto nella strada, Kingsford si abbottonò ben bene il pastrano, mentre attraversava West Street, poiché la notte era umida e nebbiosa. Svoltò in un vicoletto e si diresse verso un enorme edilìzio chiamato Black's Building, dove abitava la sua ammalata, la signora Berry.
La trovò molto debole. Un sorriso di soddisfazione le illuminò il viso quando vide entrare il dottore. Egli si fermò un po' benché sapesse perfettamente che non ci fosse più speranza per lei.
Uscito di là, si avviò di buon passo verso casa sua riflettendo a quanto avrebbe detto l'indomani al suo strano amico. Egli non aveva per nulla bisogno di un servitore, ma non sapeva come sbarazzarsi dell'hindù, e in pari tempo non voleva trattarlo male.
I suoi pensieri furono interrotti nel passare davanti a un'osteria, sull'angolo della via. Un fascio di luce partiva dì là, illuminando la via oscura. Si udivano suoni, canti e risa. Un crocchio di persone stava osservando dietro ad una porta vetrata e rideva di quanto succedeva là dentro.
Un uomo ed una donna, ubriachi entrambi attraversavano la sala a sbalzi. In mezzo a loro un bambino il teneva per mano per aiutarli. Era uno strano spettacolo.
Nonostante il loro stato d'ebbrezza, avevano tutti e due l'aria di arrossire della loro condizione e cercavano di camininare il più diritto possibile. Il loro piccolo guardiano li trascinava con l’aria soddisfatta.
Aveva una fisionomia bella e interessante benché non avesse ne la freschezza né i lineamenti dell'infanzia. Il suo abito vecchio e logoro gli pendeva da tutte le parti e si capiva che era stato fatto per un'altra persona.
Il dottore si arrestò. Egli li conosceva. Non era la prima volta che vedeva quel piccolo uomo guidare i suoi genitori a casa. Li aveva conosciuti quando abitavano Black's Building, dove alloggiava molta della clientela del dottore.
Buona sera, Polony — disse, mentre gli passavano accanto.
Il ragazzo scosse la testa.
Egli non vi riconosce.
Succede loro spesso?
Quasi tutte le sere.
E continuarono la loro strada andado a sbalzi
Gli spettatori che stavano sulla strada non li motteggiarono, come si sarebbe supposto. Avevano purtroppo familiarizzato con quello spettacolo e provavano pena per il bambino. Il dottore sospirò e si avviò verso casa.
Una voce accanto a lui disse:
Quale doloroso spettacolo!
Si voltò e vide un vecchio a lui sconosciuto, appoggiato ad un bastone che seguiva con lo sguardo i tre disgraziati. Il dottore non sapeva se l'osservazione del vecchio fosse rivolta a lui.
Maledetto il vizio del bere!
Avete ragione, signore — disse Kingsford. — Quel bambino trascina quasi ogni sera i
due ubriachi a casa. Mi domando ohe sarà di lui! Lo avete osservato?
Sì, un vecchio viso, quasi come il mio.
Ma nel vostro vi si legge la speranza mentre nel suo no.
Lo sconosciuto lo guardò.
Credete proprio? M'immaginavo che la speranza fosse per sempre fuggita da me.
Il vecchio interessava il dottore. Evidentemente egli era un signore malgrado il suo vestire dimesso.
Non sono avvezzo riflettere troppo su quanto vedo a Whiteehapel — continuò il dottore. — Forse voi non lo conoscete quanto me.
Può darsi... io vado sovente fuori. Pure ho vissuto in questo quartiere molti anni.
Davvero?
Sì, e morirò qui senza dubbio.
Il dottore diede una leggera scrollatina di spalle.
Tutti dobbiamo morire, ma che importa un luogo più di un altro...
O quando! — aggiunse il vecchio.
Nelle vostre parole non trapela troppa speranza — disse Kingsford. — Noi dottori, avvezzi a veder morire, si finisce col diventare indifferenti ed a dimenticare il terrore della morte.
Sì, finché non giunge a casa vostra, perchè, dottore o no, la morte è pur sempre una grande misteriosa e terribile dea.
Avete ragione.
Così, voi siete dottore? Mi permettete di chiedervi il vostro nome?
Kingsford, Maurizio Kingsford.
Ah! Ho udito parlare di voi. La mia figliola va qualche volta a visitare i poveri ed essi le parlano di voi. Mi chiamo Forsythe. Spero ci conosceremo meglio. Buona notte.
Attraversò la via lentamente,, lasciando Kingsford solo, sorpreso di quell'individuo che non sapeva come classificare.
Forsythe! Non ho mai udito questo nome. Probabilmente non lo rivedrò mai più, quindi è inutile che mi secchi oltre cercando di ricordarmi il suo nome. Certo il bere è un brutto vizio, però in una sera come questa, un buon fuoco, con un bicchiere di whisky caldo, ed una pipa, è la migliore delle cose.

E se ne andò frettoloso a casa per godersi quella soddisfazione.

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