mercoledì 29 maggio 2013

Shana - La Rosa del Masisabal


Shana - La Rosa del Masisabal






Sinossi

Rifacimento in chiave fantascientifica e fantasy del romanzo di Emilio Salgari La Rosa del Dong-Giang. Siamo sul pianeta Kotai, di giorno illuminato da due soli e di notte da tre lune. 
Due Imperi si fronteggiano. Quello krenusiano e quello meghariano. L’esercito meghariano a Carthago, città del suo impero, riceve una sonante sconfitta. Benchè il rapporto numerico tra i due eserciti sia notevolmente a favore dei meghariani, questi vengono sconfitti in quanto i krenusiani in battaglia si servono di guerrieri invisibili, anime di morti riportate in vita per combattere.
In questo contesto si dipana la storia d’amore tra Shana, una giovane e bellissima meghariana, innamorata di Tencotlan, guerriero krenusiano e Sciahabarim, marito di Shana e generale dell’esercito meghariano.
La storia d’amore di Shana l’apprendiamo dalla sua stessa viva voce:
Tre anni or sono a Carthago incontrai un giovane krenusiano di nome Tencotlan, bello, forte, prode. I nostri cuori ben presto parlarono: io l'amai ed egli mi amò, ma di un amore immenso, di un amore di cui tu non potrai mai avere una idea. Quella felicità durò tre lune, poi fu bruscamente spezzata. Tencotlan era stato richiamato in patria assieme all'ambasciata e fu necessario separarci. Sulla tomba di mia madre ci giurammo eterno amore: io gli giurai di conservarmi sua ed egli di ritornare un giorno per farmi felice per sempre. Un giorno mio padre, che nutriva un odio violento contro la razza krenusiana, mi intercettò una lettera di Tencotlan e da quel giorno la mia felicità fu infranta. Sciahabarim da lungo tempo ambiva di avermi e mio padre, il quale teneva molto a compiacerlo mi vendette come schiava, convinto che la mia nuova condizione avrebbe sradicato dal mio cuore l'amore che mi univa al krenusiano. Invano pregai, invano piansi, invano dissi all'uno che sarebbe stato come uccidermi trascinarmi lontana da Carthago e all'altro che mi sarebbe stato impossibile amarlo o come padrone o come sposo, perché il mio cuore ormai lo possedeva un altro uomo e che questi un giorno sarebbe ritornato. E invano dissi che avevo ormai giurato sulla tomba della mia defunta madre, di conservarmi fedele al mio Tencotlan. Una sera mi strapparono dalla mia stanza, mi trassero a forza su di un veliero volante e al mattino mi trovai qui, schiava di Sciahabarim, che mi aveva comperato per quaranta bottoni d'oro. Credetti di morire, ma così non avvenne. Sciahabarim mi violentò ripetutamente, non risparmiandomi nulla delle sue voglie lussuriose, poi, a poco a poco si innamorò di me e mi sposò, contro la mia volontà. Sperava così di volgere a suo favore la situazione. Mi sentii consumare a poco a poco, sentii andarsene le mie forze, scorrere sempre più lento il succo vitale, ammalai, ma vissi. Tencotlan mi aveva promesso di ritornare e io non volevo morire senza prima averlo veduto, fosse pure per un sol minuto, per un solo istante. Quanti tormenti, o mia Mia, in questi due anni! Ho contato i mesi, i giorni, le ore, i minuti, lottando estremamente per non venire spenta prima del suo ritorno ed ora in qual modo lo rivedo!...
Shana ritrova Tencotlan, ma dovrà superare mille prove ed avversità prima di veder trionfare il suo amore.

Dettagli prodotto

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  • Lingua: Italiano
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Introduzione



Rifacimento in chiave fantascientifica e fantasy del romanzo di Emilio Salgari La Rosa del Dong-Giang. Siamo sul pianeta Kotai, di giorno illuminato da due soli e di notte da tre lune.
Due Imperi si fronteggiano. Quello krenusiano e quello meghariano. L’esercito meghariano a Carthago, città del suo impero, riceve una sonante sconfitta. Benchè il rapporto numerico tra i due eserciti sia notevolmente a favore dei meghariani, questi vengono sconfitti in quanto i krenusiani in battaglia si servono di guerrieri invisibili, anime di morti riportate in vita per combattere.
In questo contesto si dipana la storia d’amore tra Shana, una giovane e bellissima meghariana,  innamorata di Tencotlan, guerriero krenusiano e Sciahabarim, marito di Shana e generale dell’esercito meghariano.
La storia d’amore di Shana l’apprendiamo dalla sua stessa viva voce:
Tre anni or sono a Carthago incontrai un giovane krenusiano di nome Tencotlan, bello, forte, prode. I nostri cuori ben presto parlarono: io l'amai ed egli mi amò, ma di un amore immenso, di un amore di cui tu non potrai mai avere una idea. Quella felicità durò tre lune, poi fu bruscamente spezzata. Tencotlan era stato richiamato in patria assieme all'ambasciata e fu necessario separarci. Sulla tomba di mia madre ci giurammo eterno amore: io gli giurai di conservarmi sua ed egli di ritornare un giorno per farmi felice per sempre. Un giorno mio padre, che nutriva un odio violento contro la razza krenusiana, mi intercettò una lettera di Tencotlan e da quel giorno la mia felicità fu infranta. Sciahabarim da lungo tempo ambiva di avermi e mio padre, il quale teneva molto a compiacerlo mi vendette come schiava, convinto che la mia nuova condizione avrebbe sradicato dal mio cuore l'amore che mi univa al krenusiano. Invano pregai, invano piansi, invano dissi all'uno che sarebbe stato come uccidermi trascinarmi lontana da Carthago e all'altro che mi sarebbe stato impossibile amarlo o come padrone o come sposo, perché il mio cuore ormai lo possedeva un altro uomo e che questi un giorno sarebbe ritornato. E invano dissi che avevo ormai giurato sulla tomba della mia defunta madre, di conservarmi fedele al mio Tencotlan. Una sera mi strapparono dalla mia stanza, mi trassero a forza su di un veliero volante e al mattino mi trovai qui, schiava di Sciahabarim, che mi aveva comperato per quaranta bottoni d'oro. Credetti di morire, ma così non avvenne. Sciahabarim mi violentò ripetutamente, non risparmiandomi nulla delle sue voglie lussuriose, poi, a poco a poco si innamorò di me e mi sposò, contro la mia volontà. Sperava così di volgere a suo favore la situazione. Mi sentii consumare a poco a poco, sentii andarsene le mie forze, scorrere sempre più lento il succo vitale, ammalai, ma vissi. Tencotlan mi aveva promesso di ritornare e io non volevo morire senza prima averlo veduto, fosse pure per un sol minuto, per un solo istante. Quanti tormenti, o mia Mia, in questi due anni! Ho contato i mesi, i giorni, le ore, i minuti, lottando estremamente per non venire spenta prima del suo ritorno ed ora in qual modo lo rivedo!...
Shana ritrova Tencotlan, ma dovrà superare mille prove ed avversità prima di veder trionfare il suo amore.

Incipit

La notte in cui le tre lune di Kotai si oscuravano, mentre l'esercito Meghariano, completamente sbaragliato dalle armi del generale Matho fuggiva disordinatamente in tutte le direzioni abbandonando nelle mani dei vincitori la città di Carthago, un veliero volante di classe inferiore, che aveva forzato con audacia lo sbarramento dei vascelli krenusiani, scivolava silenziosamente a dieci metri di altezza, la massima consentita, sfruttando le correnti d’aria del Masisabal, corridoio d’aria del Basso Impero che andava a terminare nel porto aereo di Meghara, capitale dell’Impero.
Era uno di quei velieri che gli abitanti della regione chiamavano piume volanti, scavato in un gigantesco albero di travek, lungo oltre sessanta metri, leggerissimo ma solidissimo, rialzato a prua ed a poppa, adorno di ciuffi di variopinte penne e di banderuole di seta e con nel mezzo una elegante cupoletta sostenuta da colonne dorate e sormontata da ampi ombrelli aperti e da antenne con svolazzanti orifiamme.
Sulla tolda della nave il clangore delle spade e delle asce si era spento. Il clamore della carneficina si era quietato. Regnava un silenzio gravido di dangue. Cinquanta uomini vestiti con armature di vario tipo, colle teste e le membra avvolte in fasce imbrattate di sangue, stavano confusamente sdraiati a poppa, stringendo con una specie di rabbia le loro lunghe daghe della fabbrica di Dubrai, armi a cui si attribuivano, nelle credenze popolari, poteri magici.
Al tenue chiarore lunare, riflessi argentei scaturivano dai loro corsaletti squarciati e dalle lame spezzate, là dove i morti giacevano così come erano caduti. Li si riportava a casa per onorarli e consegnarli alle loro famiglie. Teste coperte dagli elmi, lo sguardo contratto nell’attimo della morte, rivolto verso l’alto ad invocare per l’ultima volta il loro dio, Yophar, il gigante delle nubi.
Sotto la cupoletta, adagiati sopra ricchi cuscini di seta e soffici stuoie dipinte a vivaci colori, stavano, in silenzio, tra di loro due ufficiali dell’Impero, uno decorato del distintivo di ong-ha, ossia di generale delle truppe di una provincia meghariana e l'altro di luogotenente della flotta volante.
Il primo era un uomo sui cinquanta anni, di statura alta, con spalle larghissime che denotavano una forza non comune, volto maschio, fiero, ombreggiato da una barba rada; l'altro invece era più giovane di una ventina d'anni, agile, colla fisionomia meno espressiva e la pelle un po' meno abbronzata.
Entrambi pareva avessero preso parte attiva al sanguinoso combattimento della giornata, poiché le loro casacche di seta ricamate in oro ed i calzoni erano lacerati, macchiati di fango e di sangue. Di più, le loro larghe daghe erano in più punti scheggiate ed arrossate.
Né l'uno, né l'altro parlavano. Tutta la loro attenzione pareva volta verso il basso corso ereo dove, di quando in quando, attraverso le aperture delle boscaglie, si vedevano lanciarsi alte alte, colle selvagge contrazioni dei serpenti, e spandendo in mezzo alla profonda oscurità dei vivi bagliori, delle lingue di fuoco divoranti le ultime trincee di Carthago e gli ultimi villaggi attorno ai quali i fuggiaschi avevano accanitamente combattuto.
Sussulti nervosi agitavavano i due uomini e faceva loro correre, involontariamente, le mani alle impugnature delle daghe, quando in mezzo al profondo silenzio rimbombava cupamente, propagandosi di bosco in bosco, le urla della popolazione di Carthago, destinata ad essere sgozzata per ordine del generale Matho.
Già la Piuma dei Cieli, questo era il nome del veliero volante, aveva percorso un gran tratto di via allontanandosi sempre più dal teatro della battaglia, quando il generale si scosse.
- La vergogna si è abbattuta su di noi! - esclamò egli, percuotendo furiosamente il bordo del veliero. - Ormai tutto è perduto per noi!
- Non essere così pessimista, Sciahabarim - disse il luogotenente. - Una giornata sola non basta per vincere i figli del grande Impero di Meghara.
- Perché illuderti, Iddebal? Nessun sforzo varrà ad arrestare gl'invasori, ora che Carthago è nelle loro mani e che le nostre truppe sono in completa rotta.
- Anche tu credi nel mito della loro invincibilità?
- Sì! Non ci rimane che fuggire o farci uccidere. Si dice che al loro fianco combattano le invisibili anime dei morti, che i loro sacerdoti riescono ad evocare dalle fiamme dell’inferno. Altrimenti come spiegheresti che un esercito di un milione di uomini è stato travolto ed annientato da uno di poco più di trentamila uomini. Non ti sei accorto che molti dei nostri cadevano morti senza avere davanti al loro un nemico. Improvvisamente si apriva uno squarcio nel loro corpo, inferto da mani invisibili. E le frecce che piovevano dal nulla? No, amico mio, stiamo combattendo contro la magia e se non controporremmo magia a magia non riusciremo a respingere l’invasore.
- Ma perché sono venuti a invadere le nostre provincie? Quale male abbiamo noi fatto ai krenusiani? Forse che noi siamo andati a devastare le loro terre e le loro città?
- Parli sul serio, Sciahabarim? Ti sei forse dimenticato che il nostro Imperatore non poteva sopportare che i missionari di Krenus venissero a portare la parola del proprio dio nel nostro regno, così che li ha fatti decapitare tutti. Per la loro morte eccoci addosso l’Impero di Krenus. , i quali giurano di farci danzare a suon di cannone.
- Ah! E’ proprio così! Ma perché il nostro Imperatore ha fatto decapitare quei poveri missionari, che infine recavano a noi una diversa civiltà e che mai nulla ci fecero di male?
- E’ una mania che ha il nostro Imperatore, il quale sostiene che con la loro parola avrebbero sovvertito l’ordine che regna nel nostro Impero.
- A volte penso che se non esistesse la parola Dio, il mondo sarebbe risparmiato da incomprensioni e conflitti. E miliardi di uomini non sarebbero morti. E così abbiamo sulle spalle questa disgraziata guerra. Ma che non si possano cacciare dalle nostre terre, non ci credo. Mi pare che dovrebbero accontentarsi della sanguinosa sconfitta che ci hanno inflitto.
- Ora che ci hanno vinti non si ritireranno più e continueranno a invadere le nostre provincie.
- E tu credi che non resisteremo?
- Lo hai veduto a Carthago.
- Ma noi siamo molti, Sciahabarim, e armi ne abbiamo ancora ed il valore non ci manca.
- Sì, ed ecco che in grazia del nostro valore e della nostra astuzia che noi siamo fuggiaschi - disse il generale con cupa voce. - Anch'io credevo di vincere, anch'io mi credevo tanto forte da disfare con queste dieci dita l’esercito di Krenus, eppure ho dovuto riconoscere la mia debolezza di fronte a loro e fuggirmene a scavezzacollo.
- Sicché tutto è perduto.
- Tutto, Iddebal. Carthago è presa, la costa bloccata dalla flotta nemica ed il nostro esercito in fuga. Che vuoi fare?
- Ma tu sei forte, abbiamo ancora milioni di uomini e possiamo ancora lottare.
- E chi dice che Sciahabarim non lotterà? - gridò il generale. - Ah! Se non vi fosse Shana, ti giuro che non sarei in questa barca.
- Dove saresti?
- Sotto le mura di Carthago a combattere e a morire.
- E invece... Ah! Sciahabarim!... Ma dunque, tu l'ami molto quella donna?
- Alla follia, al delirio, Iddebal. Quell'essere soprannaturale mi affascina, e per vedere un sorriso su quelle labbra sempre fredde e sempre mute, commetterei non so quali pazzie. E perché vuoi, che nel momento della ritirata e quando il nemico sfondava i miei ranghi, mi avventassi come una tigre fra i soldati Krenusiani e mi stringessi ai fianchi di un ufficiale per piantargli dieci pollici di lama nel petto, se non per istrappargli una meravigliosa collana che regalerò a Shana? E perché vuoi che io passassi fra le navi del generale Matho se non per guadagnare il Masisabal e venire a difendere la mia Shana? Sublime creatura, vago fiore profumato del Masisabal, quanto io t'amo! Ed ella non mi ama e forse giammai sarà mia!
- Zitto! - esclamò improvvisamente Iddebal, estraendo la daga.
- Che cosa succede?
Si erano uditi dei rumori e delle grida. Sciahabarim e Iddebal si affrettarono a uscire dal casotto, volgendo gli sguardi verso l'alto corso della corrente d’aria.
I soldati si erano intanto alzati come un sol uomo e stavano correndo ai parapetti del veliero, credendosi minacciati da qualche drappello di nemici, mentre il timoniere rallentava la velocità della nave contraendo le vele.
- Dunque, cosa succede? - chiese Scialabarim.
- Non ne so più di te, generale - rispose il timoniere. - Ma stiamo in guardia, perché le bassi nubi possono nascondere dei nemici.
- Che ci sia qualche nave nemica? - chiese Iddebal.
- Non credo, - rispose Sciahabarim, - avremmo udito il caratteristico sibilo del vento contro le vele. Un rumore inconfondibile. Ora chi è che ha udito i rumori di poco prima?
- Nessuno - confermò per tutti il timoniere.
- Del resto nemici o amici, tenetevi pronti a tutto e voi altri ragazzi, e tu timoniere allenta di nuovo le vele per riprendere velocità. A mezzodì voglio essere a Makkar.
Il timoniere lasciò di nuovo andare le vele  e  la Piuma dei Cieli riprese la corsa tenendosi nel mezzo del canale di corrente d’aria, mentre i soldati tornavano a riposarsi.
Il vascello volante aveva percorso cinquecento metri, quando Iddebal, che si teneva ritto sulla prua, segnalò un corpo umano che la corrente d’aria trascinava.
- Guarda a dritta - gridò. - Abbiamo un corpo, Scialabarim.
- Oh! Oh! - borbottò il generale.
- Che sia uno dei nostri o qualche dannato nemico? Ehi, Than, governa in modo d'abbordarlo!
- Sta bene, Sciahabarim - rispose il timoniere.
Il corpo scendeva la corrente tenendosi verso sinistra, ai limiti della corrente d’aria, limiti che se superati l’avrebbero fatto precipitare al suolo. La Piuma dei Cieli, abilmente diretta, in pochi istanti lo raggiunse e Iddebal, afferrandolo per l’armatura, lo trasse a bordo deponendolo su di una stuoia.
Era, a giudicarlo dalla fine armatura che indossava, un ufficiale krenusiano sui ventisei o vent'otto anni, di statura superiore alla media, di forme vigorose e d'aspetto bellissimo. Maschio, anzi fiero era il suo viso, ombreggiato da un bel paio di baffi; lunghi, nerissimi, dai riflessi metallici i suoi capelli; bruna e vellutata come quella delle creole, la sua carnagione.
Sciahabarim lo mirò a lungo con occhio cupo, poi chiese brevemente e quasi con dispiacere:
- E’ morto?
Iddebal appoggiò una mano sul cuore del krenusiano e dopo alcuni istanti rispose:
- No, generale: il cuore batte ancora.
- Uccidilo!
- E se invece noi lo portassimo a Makkar?
- Hai ragione. Il nostro popolo si divertirà, quando lo vedrà combattere nell’arena. Cerca di farlo rinvenire.
Iddebal, aiutato da alcuni soldati, spogliò il prigioniero, gli strofinò dapprima delicatamente e poi energicamente il petto, indi, colla punta della scimitarra forzandogli i denti che teneva serrati, gli versò in gola alcune gocce d'acquavite.
Subito un fremito scosse le membra del krenusiano. Sternutò parecchie volte, indi aprì gli occhi guardandosi attorno con stupore.
- Sei robusto, amico mio - disse Iddebal, ghignando. - Orsù, bevi un altro sorso: ti farà bene.
Un nuovo sorso d’acquavite fece tornare completamente in sé l'ufficiale. Appena riconobbe gli uomini che lo circondavano, portò la destra al fianco come se cercasse la daga che più non aveva.
- Sta' quieto, amico mio - disse Iddebal. - Vedi bene che ogni resistenza sarebbe, almeno per ora, inutile. Ora lascia che ti presenti il mio generale Scialabarim comandante di Makkar.
A quel nome, un fremito agitò le membra del krenusiano. Si alzò a sedere e fissò attentamente il generale meghariano.
- Sciahabarim - mormorò egli, dopo un minuto di continua fissazione.
- Mi conosci forse? - chiese il generale.
Il krenusiano non rispose.
- Se non erro, - proseguì Sciahabarim con accento d'odio, - tu sei uno di quelli che ci hanno sconfitti a Carthago e con l’aiuto della magia. Senza di essa non avreste mai vinto!
L'ufficiale tornò a trasalire e diventò leggermente pallido.
- Dimmi un po' sei un krenusiano delle Terre del Nord o delle Terre del Sud?
- Delle Terre del Sud - rispose il prigioniero.
- Ah! Un traditore nella pelle di un krenusiano. Lo sai che le Terre del Sud una volta facevano parte del nostro Impero?
- Una volta.
Fu il laconico commento.
Una nube passò sulla fronte del generale. La sua mano corse all'impugnatura della daga, ma si frenò subito.
- Lo vedremo, se sarai così spavaldo nella nostra arena, quando gli artigli del Carnosaurus ti squarceranno il petto. Ehi! Iddebal, ti raccomando questo caro giovanotto.
Tornò a sdraiarsi fra i cuscini e prese a consultare dei documenti, intanto che la Piuma dei Cieli continuava a salire il canale d’aria con la rapidità d'una freccia, passando come una brillante meteora sotto le volte di un cielo dai mille colori.
Alle dieci del mattino, quando già i due soli del pianeta da parecchie ore versavano torrenti di fuoco su quelle ubertose terre e sulle rive dei fiumi sottostanti, cominciarono ad apparire piccoli villaggi tuffati in mezzo al verde delle intricate foreste, eleganti templi dedicati agli dei di Meghara e, più lontano, sui pendii delle colline, delle fortezze in gran parte diroccate e delle trincee che parevano avessero sostenuto più d'un assalto.
Tre ore più tardi, ad una svolta della corrente d’aria, Iddebal segnalò Makkar la quale s'alzava fra rigogliose piantagioni coi suoi templi irti di comignoli scintillanti d'oro, i suoi bastioni e le sue case di mattoni cotti al sole e sostenute da colonne dipinte a vivaci colori.
Sciahabarim, udendo il grido del luogotenente, respirò come gli si fosse levato di dosso un gran peso che gli gravitava sullo stomaco e fece battere il gong al cui suono rimbombante accorse, in meno che lo si dica, tutta la popolazione, che si affollò confusamente sulle banchine sospese in aria da una tecnologia di cui non avevano più memoria ne conoscenza.
- Coraggio, figliuoli - diss'egli volgendosi verso i suoi guerrieri. - Siate uomini!
Il veliero volante approdò. Vecchi, adulti, fanciulli e donne si strinsero ai piedi delle scale delle banchine aeree cercando fra i pochi superstiti il padre, il marito, l'amante, il fratello od il figlio.
Sciahabarim con uno sguardo percorse tutta la riva e mandò un profondo sospiro.
- Sempre la stessa! - mormorò. - Tutti vengono ad abbracciare i parenti e lei mi dimentica.
Saltò per primo a terra accolto da grida di gioia e da uno straziante singhiozzare di donne, che invano avevano cercato in quei pochi guerrieri i loro cari, salutò i notabili della città, poi, dopo d'avere raccomandato di ben vegliare sul prigioniero, si allontanò a rapidi passi seguito dal suo luogotenente, dirigendosi verso la propria abitazione.
Dopo cinque minuti giungeva dinanzi a una bella casa costruita con mattoni, col tetto arcuato, sostenuto da colonne di legno graziosamente dipinte e circondata da una spaziosa veranda riboccante dei più profumati fiori della Indocina.
- Shana! Shana! - gridò egli, con voce rotta.
A quella chiamata nessuna voce rispose. Sciahabarim provò un fremito angoscioso e impallidì.
- Che sia uscita o che sia ammalata? - chiese con voce tremante.
- Forse riposerà - disse Iddebal.
- Ho paura, Iddebal! Quel debole fiore era avvizzito quando lo lasciai.
- Non spaventarti.
- Shana - ripetè Sciahabarim. - Mia dolce Shana!
La porta, a quella seconda chiamata, si aprì e sulla soglia apparve una giovane e seducente creatura, dalle forme ammirabili, seminascoste in una lunga camicia di seta azzurra.
Quella donna era Shana.

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