mercoledì 29 maggio 2013

Un brano tratto dal Romanzo Eleanor di Eleanor LeJune



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Le prime ore del mattino, Eleanor le trascorre nello studio di Jean-David. Di là, il suo sguardo spazia sul giardino di rose che circonda la villa. Quando la brezza estiva passa tra gli alberi, penetrando dalla porta aperta, un sottile, intenso profumo di rose si spande nella stanza.
Si sorprende a pensare che la luce degli specchi e dei damaschi le piace più che la luce del sole e delle acque; la poesia di quelle stanze, destinate ad un’ignota vita, la commuove più che la poesia del bosco coi suoi decrepiti ippocastani e le elci malinconiche.
Spes­so, sdraiata per lunghe ore sopra l’immenso divano dorato, la testa reclinata sul guanciale a ricami, i piedi poggiati sulla seta dei cuscini, si smarrisce di sogno in sogno. La brunita levigatezza dei tessuti ha per lei misteriose voluttà, i delicati cammei, che ingombrano i tavolini, inestimabili ed arcane significazioni; ognuno di essi non può che occupare quel posto, ognuno di essi è necessario, come la lama di sole che, dalla porta socchiusa dell’atrio, dilaga nella prima stanza e spinge riflessi nella seconda, riempiendola di una semiluce d’ipogeo. Le sete e le stoffe lamellate d’oro acquistano una smorta vita e tutti i colori incupiti ricordano l’ora indecisa, fra tramonto e notte, nella quale soltanto il bianco e le tinte chiarissime mantengono un rilievo.
Nella semioscurità, gli specchi vuoti la riproducono all’infinito, spingendola per una fila senza fine di grandi sale verso il salone fatato, al quale le utopie della sua fantasia cercano inutilmente una porta aperta.
Ha le gote accese, il drappo che l’avvolgeva è scivolato via lasciandola completamente nuda ed Ella s'incanta come un poeta dinanzi all'aurora del suo corpo. Una sottile seduzione, un profumo di giovane donna esala da quella struttura tenera, ma dai contorni scattanti e le finezze audaci. Sorride nella penombra, cogli occhi socchiusi, e quella penombra che la ingrandisce, le rende un sogno per un altro.
Indistinte fantasticherie le vagano per la mente. Il ronzio ostinato delle api che attraversa l’erba lunga, non rasa, sembra rendere il silenzio ancora più opprimente.
La casa, alla vigilia di quella nuova esperienza, le pare moltiplicare i suoi silenzi. Eleanor pensa, risalendo il corso della propria vita, ai prossimi giorni limpidi d’affascinanti e terribili incer­tezze. Quel sì che ha pronunciato con voce vibrante, il cuore grosso d’orgoglio, quasi che tutto il mondo fosse ad applaudire il suo eroico coraggio di fanciulla, lo ha mille vol­te meditato nel silenzio della propria camera, di notte, quando Jean-David, dopo averla penetrata a lungo, dorme e le tenebre si diradano sulla soglia di un mondo lontano; e deve riconoscere che le è sfuggito nell’inconscia scelta di un momento supremo. Sta rischiando il suo matrimonio in un gioco sconosciuto, ma tanto più attraente che la posta non le sembra eccessiva. Ma soffre, comunque, le prime febbri del dubbio in un tumulto d’affetti e di ragionamenti.
Tutte le energie della sua volontà e delle sue passioni lottano intorno a questo sì, che il buon senso scandisce con la sferza della propria sottile ironia, mentre ella segue in se stessa le vicende di quella battaglia, coll'ansia smemorata dello spettatore, che si perde in una troppo acuta riflessione.
E’ sola. Nessun'eco la disturba, nessuna voce la distoglie dai suoi pensieri. E’ sola con se stessa, col proprio proposito, col sentimento angoscioso della sua grandezza e l'affanno compresso di vere, indeterminate, e forse invincibili, difficoltà. Si accorge che, pure fortificandosi nella sua decisione, non riesce a comprendere quale sarà il suo futuro; il cuore le batte sotto le strette della paura, mentre il pensiero corre innanzi verso indeterminate visioni. Si esalta ancora, considera la sua resa come l’estremo atto d’amore che deve a Jean-David.
Il pesante torpore che avvolge le stanze vuote è intriso di voluttà, un bisogno rovente d’amore le giunge dalla campagna in fiore, dalle foglie, dagli alberi assorti nel sole, dai prati, ove il fieno falciato si essicca evaporando i più dolci profumi. L’ombra stessa della stanza è piena di sollecitazioni. Gli impercettibili soffi di vento somigliano a respiri soffocati, ai suoi sospiri che si perdono nel segreto di quell’intontimento.
Che rimarrà, dopo, del suo amore per Jean-David? Non ha un’idea precisa, nessun concetto chiaro; un velo si stende lento e spesso sulla sua anima e, a poco a poco, gliela avvolge.
Trema in tutto il suo essere, insicura del prossimo mutamento. Non solo ha paura di ciò che accadrà, ma ha paura anche di non esserne all’altezza. Eppure si sente matura: un nucleo nutrito di carne fresca, di sangue pulsante, di possenti turgori.
Quando si leva dal divano sembra un fiore che drizzi la piccola anima sopra un duplice stelo e offra i profumi della sua corolla alle ignote labbra, perché sulle sue labbra trovino succhi lungamente desiderati.
Con il caldo, l’attesa si fa di secondo in secondo più intollerabile, in un ozio che la lascia senza forze. Cedendo alla debolezza del corpo le pare di liberarsene e di slanciarsi verso distanze immense, amiche sconfinate delle sue fantasticherie.
Il pensiero corre al marito. Certe sue tendenze verso sogni orgiastici, appena riconoscibili all'inizio, nelle ultime settimane si sono manifestate con insistenza ed Eleanor deve confessarsi d’averle incoraggiate, abbastanza attratta, come molte donne, dall’ambiguità della propria natura.
Presa dal fascino delle argomentazioni maschili e dall’orgoglio di mostrarsi evoluta ha accondisceso, schiava dell’amore che la lega a Jean-David, capace di assorbire la totalità dei suoi sentimenti e dei suoi sensi.
Si sorprende a pensare che la sua vita di fanciulla, viziata dalla tenerezza del marito, si è sempre svolta nell’insignificanza delle abitudini domestiche, senza nessun alimento sostanzioso per lo spirito e nessuna prova corroborante per il carattere.
In breve, senza scosse. Sono tre anni che è la moglie felice di Jean-David e sono tre anni che dedica le sue intere giornate a lui. Di natura è fedele. La sua armonia con Jean-David è così riuscita che non concepisce neppure di potersi interessare ad un altro uomo.
Non che manchino i corteggiatori: la sua bellezza poco comune, la sua giovinezza, resa ancora più impudica dall’età del marito, il corpo spesso messo in evidenza dalle vesti corte o trasparenti, attirano su di lei il desiderio di quasi tutti gli uomini che incontra.
Ed è fiera di ciò. Ma l'idea di arrendersi all'uno o all'altro di questi pretendenti le sembra irreale e illogica. Deve però ammettere che, alla banalità del matrimonio, lei non ha opposto che le risorse del suo bel corpo.
Cosciente di aver centrato il problema, trasalisce.
Nell’osservarsi la mano, levigata come avorio antico, dalle rosee unghie sottili, e il braccialetto di zaffiro che le scivola sul polso, Eleanor è colpita dalla facilità con cui tratta argomenti così scabrosi.
Come sono lontani i tempi in cui era una pudica educanda. Ricorda il giorno in cui per la prima volta aveva varcato la porta del collegio: la vista del chiostro cupo e delle suore avvolte nei larghi abiti scuri, che scivolavano come ombre su scarpe di cimosa, le diffuse la smania di scappare, ma il gelo della scuola e l'ombra della cappella la soffocarono come un'aria impregnata di cloroformio.
Rimase istupidita per giorni, poi la sua vivacità selvaggia prese il sopravvento e finì così per accorgersi che quei cortili foschi si animavano nel­le ore di ricreazione, risuonavano di grida festose e si vivacizzavano delle corse, dei volteggi, degli sgambetti, dei giochi nuovi delle compagne di collegio ed allora vi si buttò con tutto il suo impeto e con la violenza del suo temperamento indomito.
Cominciarono a volerle bene non solo le amiche più sveglie ma anche quelle timide e pensose che non abbandonavano, neppure nelle ore di ricreazione, l'aria compunta della preghiera.
E furono quelle le preferite: Marie, Helen e Katryn, piccole, graziose e fragili, che si muovevano silenziosamente, parlavano sommesse, arrossivano per nul­la, trasalendo al minimo rumore improvviso. Eppure tanto audaci da avere ciascuna di loro un’amante.
Le guardava stupite, perché alla sua ammirazione sembrava quasi temerario il pensiero di imitarle, ma il loro coraggio, il misticismo erotico, il racconto delle loro avventure notturne, a poco a poco la penetrarono, trasformando il suo ardore selvaggio, ingigantendo la sua fantasia sino ad ammorbidire la sua sensibilità disordinata, assopendo nel fervore della fantasia i suoi impeti giovanili. Arrossendo le pregò di aiutarla.
Conobbe Etienne. Il viso magro nel suo bruno pallore parve perdersi nei grandi occhi estatici del giovane amico; le mani le si giungevano spontaneamente sul suo sesso ed il suo cuore fu insieme divorato dalla paura del peccato e dall'ardore della contemplazione.
Letteralmente rapita dalla struggente bellezza degli zampilli di sperma sul suo corpo nudo, quella visione continuava a rifulgerle velatamente sul capo, nelle notti solitarie, tra languori di musiche celesti, nella struggente assenza della verga dal profumo di sandalo, dura e dolce alla lingua, tenera ai denti innamorati. Le sue labbra, in quelle notti, si sentivano aride ed ella sapeva che le sue dita, nonostante i ricordi, non sarebbero riuscite a soddisfare l’attesa del suo sesso.
Le amiche, alle sue esagerazioni, seguivano ammirate, ma un po’ inquiete, la sua trasformazione che s’avviava verso una completa libertà di costumi sessuali e l'additavano ad esempio alle compagne più morigerate, e si compiacevano di lodarla a quelle più smaliziate. E lei non osava confessare loro che era sempre vergine.
Un giorno, mentre un fiotto di sperma le imbrattava il volto, Etienne l’aveva stretta tra le braccia dicendo:
- Non lasciare che mi innamori di te, ti supplico. Fa tanto male.
C’erano delle lacrime nei suoi occhi. Era eccitante e molto commovente.
La sua audacia superò ogni limite. Impietosita, gli prese il pene in bocca, lo ripulì dallo sperma appena sgorgato e lo succhiò sino a quando non riesplose, ingoiando, per la prima volta, quella massa viscosa che inesauribile sgorgava dal membro sussultante.
Nessuna si era spinta tanto avanti.
L’atto era stato di un’eleganza tanto delicata che l’aveva colmata di languore e le aveva dato il desiderio d'un domani che non si precisava al suo pensiero, se non come la dolcezza dell'ora presente fatta più languida e più profonda, co­me la realtà della campagna riflessa nel sogno di un'acqua stagnante.
All’ultimo anno delle normali su­periori aveva conosciuto Jean-David, chiamato ad insegnare storia e filosofia. Alto, magro, pallido come un asceta, egli aveva esercitato subito un fascino ipnotico su tutte le collegiali, lei compresa.
Quando entrava serio e tranquillo nella scuola, e sedeva appoggiando per un mo­mento la fronte alla mano, le alunne tacevano sospese in attesa che la sua voce pacata cominciasse la le­zione con una chiarezza cristallina che, ani­mandosi a poco a poco, diventava per quelle ragazze sog­giogate facile e dolce come la poesia melica.
Nelle austere aule i sospiri si erano fatti più frequenti: si fece più frequente il dono anonimo di qualche fiore abban­donato sulla cattedra; Jean-David non poteva più interrogare una ragazza senza vederla impallidire, non poteva più attraversare i corridoi senza udire mormorii di parole appassionate, e di gior­no in giorno crebbe in lei il disagio di vivere in quell'avvampante atmosfera di amore, non sempre fanciullesco, che tentava di palesarsi perfino con biglietti nascosti tra i compiti e le prove degli esami bimestrali.
Nelle lunghe notti i deliri si confondevano coi sogni, i sogni con le fantasticherie, le fantasticherie con la realtà.
E di giorno, dal suo posto nel primo banco, con la gonna che lasciava intravedere il merletto delle mutandine, faceva danzare sotto gli occhi di lui le sue cosce abbronzate, mentre con lo sguardo non l’abbandonava un momento, arrossendo quando quello di lui la sfiorava, impallidendo quando egli la interrogava.
Talvolta la sua voce, beandola, la smemorava cosi che perdeva il filo del suo ragionamento. Un giorno, egli si accorse di quelle distrazioni, e interrompendosi l’invitò a ripetere. Si alzò di scatto, e non seppe dire neppure di che cosa lui parlasse. E il professore, vedendo il tremore delle sue labbra e la fissità dei suoi occhi, sorrise benevolmente:
- Diceva dunque le orazioni?
Era vero: senza accorgersene ella recitava fra sè e sé le più folli poesie d’amore: era il linguaggio che le saliva dal cuore, sotto l'impulso del suo amore inconfessato e profondo, spoglio di ogni soffio fem­mineo, quasi mistico, così che pareva associarsi alla religione, diventarne la forma più ardente.
Due giorni dopo l’aveva deflorata. Scoprì così l'ardore sensuale, che s'allocava nel fondo più segreto della sua carne, lasciandola vergine nella castità del suo corpo e del suo spirito.
Piccola creatura selvaggia, ella aveva soltanto accolto in sé, lentamente, i desideri di conoscenza che non le erano sembrati violazione di leggi morali o religiose, ma sentimenti nati e sbocciati con la sua stessa carne, scaldati ed alimentati dalla sua stessa giovinezza.
Le cose che aveva creduto di sapere e che Etienne non le aveva svelato, con Jean-David le si rivelarono in un’inconsapevole affinità di nutrimento per la sua immaginazione e per la sua fantasia.
La sequenza dei pensieri la fa cadere dal mondo del ricordo nel presente. Con angoscia prende coscienza che ben presto aprirà il suo grembo, le sue terga e la sua bocca ad un pene sconosciuto. 

Il pensiero la terrorizza e al contempo l’affascina. Ed è vero che lei dovrà accettare, acconsentire nel vero senso della parola, perché nulla le sarà inflitto a forza, nulla a cui non abbia in precedenza acconsentito. Può e potrà sempre rifiutarsi, niente la tiene in schiavitù, fuorché il suo amore. 


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